28-04-2005

E se la Cina si sgancia dal dollaro ?

La moneta cinese pronta a sganciarsi dal dollaro?
Svincolare la moneta cinese dal sistema di cambio fisso ne determinerebbe un''''immediata rivalutazione.

Negli ultimi tempi la stampa cinese offre spazi sempre più ampi e frequenti a un argomento forse non così familiare a una popolazione che sfiora il miliardo e mezzo di abitanti, ma sicuramente molto dibattuto tra chi presiede al futuro economico e finanziario della nazione.
Il governo cinese si sta infatti domandando se non sia giunto il momento di affrancare il renminbi (yuan) dalla divisa statunitense, il cui corso di cambio è fissato a 8,28 Rmb per 1 dollaro (corrispondente a 11,05 contro euro).
Di certo, si tratta di una scelta difficile da prendere sia per le sue implicazioni economiche, che per altri aspetti legati alle relazioni diplomatiche con i paesi esteri.
Svincolare la moneta cinese dal sistema di cambio fisso, secondo gli esperti, ne determinerebbe un’immediata rivalutazione, con ricadute non certo trascurabili.

Questo regime di cambio è stato il principio ispiratore della politica economica cinese per oltre un decennio e modificarlo significherebbe, pertanto, alterare anche la gestione dell’economia nazionale. Allora ci si potrebbe domandare per quale motivo Pechino debba muoversi verso tale obiettivo che, sembra, sia più prossimo di quanto si possa immaginare.

Secondo il quotidiano britannico “Financial Times” la spinta più forte in tale direzione giunge dagli Stati Uniti. Sul continuo allargamento del deficit commerciale USA (nel mese di febbraio si è attestato al nuovo record storico di 61 miliardi di dollari) hanno un peso notevole le importazioni dalla Cina, il cui volume seguita ad aumentare, a livello mondiale.
A Washington si sta conseguentemente diffondendo una corrente di pensiero, che considera il regime di cambio valutario USA/Cina uno dei maggiori sostegni alle esportazioni cinesi. Dato l’aggravarsi dei conti commerciali USA, è probabile che il Congresso chieda a Bush di adottare misure più incisive, per favorire un rientro del preoccupante disavanzo.

Naturalmente sussistono anche opinioni contrarie. Alcuni economisti fanno notare che la Cina e altri paesi asiatici, grazie ai massicci acquisti di dollari effettuati per evitare che le loro monete nazionali si apprezzassero, sono divenuti, per l’America, i finanziatori del deficit fiscale e di quello delle partite correnti. L’interesse per una strategia di questo tipo potrebbe anche cessare da un momento all’altro. Il biglietto verde si è svalutato, soprattutto rispetto ad alcuni anni fa e, pertanto, le massicce riserve in dollari accumulate dalle banche centrali dell’estremo oriente ora si stanno deprezzando.

L’enorme crescita di tali riserve è in parte motivata dalla reazione alla crisi Finanziaria asiatica che, nei primi anni ’90, provocò un dissesto di notevoli proporzioni nel sistema bancario.
La decisione dei paesi colpiti dalla crisi fu quella di accumulare capitali in dollari, per proteggersi da ulteriori oscillazioni sul mercato internazionale. Secondo la Banca Mondiale, le riserve cinesi equivalgono attualmente a dodici mesi di importazioni, ossia il doppio di quanto viene comunemente ritenuto necessario.

Questo spiega perché l’esigenza di accantonare ulteriori riserve in dollari potrebbe essersi esaurita. In effetti, circolano voci insistenti di un possibile rallentamento in tal senso da parte dei governi asiatici, Cina in testa, che invece sembrerebbero ora interessati a diversificare in altre valute. Un cambio di direzione da parte di piccole nazioni asiatiche causerebbe solo una temporanea volatilità sui mercati finanziari, ma se dovesse intervenire il gigante giallo l’effetto avrebbe una portata di gran lunga superiore, soprattutto sugli Stati Uniti. Basti pensare che la Banca Popolare Cinese è stato uno dei principali acquirenti di buoni del Tesoro USA negli ultimi anni, aiutando indirettamente l’amministrazione Bush a coprire il buco del bilancio federale.

Ovviamente, se la Cina e il resto dell’Asia dovessero abbandonare questa politica di approvvigionamento valutario e, nel contempo, USA, Europa e Giappone facessero la loro parte diminuendo il deficit fiscale e promuovendo la crescita economica, la situazione generale risulterebbe bilanciata. In caso contrario no. Anche i rappresentanti del G7, riunitisi lo scorso fine settimana, ritengono che per riequilibrare l’economia mondiale sia basilare un insieme di elementi: flessibilità monetaria in Asia, crescita più rapida in Giappone ed Europa e maggiore impegno di Washington nell’alleggerire la sua dipendenza dai capitali esteri, tramite un incremento dei risparmi nazionali. Finora, però, i progressi su tutti questi fronti si sono rivelati assai modesti.

Abbandonare il regime di cambio fisso non è solo un dilemma legato a pressioni esterne. Le autorità cinesi, in realtà, hanno dibattuto a lungo sulle decisioni da adottare e sulle conseguenze di un’eventuale flessibilità sui rapporti di cambio con l’estero, anche al loro interno. Fino ad oggi non sono mai giunte indicazioni sulla tempistica di una riforma, anche perché le opinioni al riguardo in seno al governo sono molto divergenti: non è chiaro se il cambiamento debba concretarsi e non si riesce neppure a stimare quale tipo di politica dovrebbe successivamente essere applicata. I preparativi per sganciare il renminbi dal dollaro avvengono a porte rigorosamente chiuse, poiché si teme che eventuali anticipazioni in merito possano determinare oscillazioni valutarie di eccessiva ampiezza.

Per cui non si sa né cosa accadrà con esattezza, né, tantomeno, se ci vorranno mesi o anni prima che una decisione venga approvata.
Pechino si muove, dunque, con estrema cautela e le voci circolate ultimamente sulla stampa non sono state confermate ufficialmente. L’argomento, tuttavia, è di grande attualità e assai controverso. Gli economisti sottolineano che i tassi di cambio sono molto utili per mantenere la robusta crescita annua che la Cina vanta da parecchi anni (7-8% ca.) e per garantire i posti di lavoro. I politologi fanno notare che Pechino non deve modificare il sistema dei cambi solo per accogliere le insistenze di Washington, benché ritengano fondamentale non scivolare in incidenti diplomatici proprio con gli USA. La partita è così tutta da giocare e, nel frattempo, la curiosità aumenta.

a cura di Corner Bank www.corner.ch


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