26-05-2005

Le aziende USA snobbano l'Europa

Desta un certo stupore apprendere dalle pagine di un’autorevole rivista economica statunitense, quale è il settimanale “Business Week”, che diverse multinazionali americane stanno spostando i loro interessi dall’Europa occidentale a quella orientale. Questa è, in effetti, la sintesi di uno studio condotto da alcuni economisti, che parlano di un fenomeno in procinto di diventare ormai una tendenza.
Ma con quali conseguenze per le grandi potenze industriali del Vecchio continente?
Le ragioni degli imprenditori statunitensi, trascinati da questa nuova corrente, non sono difficili da comprendere. Le vendite sui mercati dell’Europa occidentale ristagnano da mesi, sia a livello di spesa al consumo, sia per quel che concerne gli investimenti aziendali; complici le insicurezze che gravano attualmente sul futuro delle economie europee, le cui capacità di ripresa appaiono per il momento scarse. Un quadretto poco incoraggiante, quindi, per chi cura le proprie attività da oltreoceano e deve fare i conti anche con un euro nettamente più valutato del dollaro e un mercato del lavoro molto rigido. Vendite in calo e costi produttivi elevati sono quindi i due
elementi principali che, da qualche tempo, giocano a sfavore degli investimenti USA nella parte più sviluppata dell’Europa, ma che, per converso, stanno rendendo sempre più attrattiva l’altra metà del Vecchio continente.
I dati parlano chiaro: l’economia di Eurolandia non cresce e quest’anno i pronostici ruotano attorno a una percentuale molto contenuta del Pil, inferiore addirittura all’1,5%, ossia
meno della metà del tasso di espansione congiunturale previsto per USA e Asia. L’elevata disoccupazione, giunta all’8,9%, i costi del lavoro in ascesa e, non ultimo, il rincaro del petrolio stanno rendendo piuttosto ardua la lotta per il recupero dell’efficienza
produttiva delle imprese ubicate nelle nazioni occidentali dell’UE.

Sull’altra sponda dell’Atlantico si comincia pertanto a dubitare delle possibilità di una pronta ripresa congiunturale, dopo quasi cinque anni di asfissia e di vana attesa. Grosse
“corporation” del calibro di IBM, General Motors, Emerson, Sara Lee e via dicendo, hanno conseguentemente iniziato a tagliare i piani di investimento programmati per l’anno in
corso, in cerca di nuovi lidi. Si escludono, per il momento, drastiche manovre correttive sul numero degli effettivi attualmente impiegati presso le filiali delle multinazionali USA, anche perché la politica difensiva attuata dai sindacati europei renderebbe alquanto costoso ridurre gli organici.
Malgrado ciò, si cominciano a scorgere con timore le prime avvisaglie. Ai primi di maggio, per esempio, IBM ha annunciato che la maggior parte dei tagli previsti al personale previsti nel 2005 potrebbe essere attuata proprio nella zona euro; per contro, il colosso mondiale dell’informatica sta assumendo forza lavoro nei suoi stabilimenti di Ungheria e Slovacchia. Allo stesso modo, General Motors potrebbe eliminare 12mila posti di lavoro in Europa entro il 2006, nonostante stia parallelamente espandendo la propria attività in Polonia.
La situazione è assai tesa e un’analisi dettagliata evidenzia che la flessione delle vendite al consumo, sul mercato europeo, si sta delineando in maniera assai più pervasiva di quanto si potesse presumere. Nel settore alimentare, per esempio, i consumatori stanno disdegnando i prodotti di marca per orientare i loro acquisti sulle allettanti offerte dei cosiddetti “hard discount”, le catene di distribuzione a prezzi stracciati, che ormai hanno assunto un ruolo importante nella panoramica dell’imprenditoria europea; si pensi, ad esempio, al successo di Lidl o di Aldi Group, entrambe tedesche e in continua espansione geografica nel Vecchio continente. La concorrenza esercitata da queste “new entry” nel settore dei beni di largo consumo ha costretto tutti i colossi storici della distribuzione a rivedere le politiche tariffarie.

Anche a livello macroeconomico le cifre parlano chiaro. Gli investimenti esteri nell’Europa dei 15 sono piombati di quasi il 50% nel 2004, scendendo a 165 miliardi di dollari; tutte le principali economie hanno accusato una contrazione, tranne la Gran Bretagna. Nello stesso arco di tempo, le otto nazioni del centro e dell’est europeo entrate a far parte dell’Unione Europea poco più di un anno fa hanno registrato un incremento degli investimenti provenienti da oltre confine pari a un terzo, raggiungendo un totale di 36 miliardi di dollari.

Benché la situazione sin qui descritta sembri corrispondere a realtà, non si può certo immaginare che, improvvisamente, le società statunitensi decidano di voltare le spalle a un mercato pur sempre importante, composto da ben 380 milioni di consumatori. E a suffragio di questa asserzione non mancano le testimonianze. Nel tentativo di recuperare le quote di mercato perdute, McDonald’s ha deciso di abbattere i prezzi dei propri hamburger venduti in Germania e in altre nazioni europee, intensificando nel contempo la promozione in Inghilterra. Altre aziende USA sembrano intenzionate a seguire l’esempio di McDonald’s, rinnovando le proprie strategie di vendita nella speranza che l’economia europea riprenda a respirare a pieni polmoni quanto prima.
Comunque sia, l’Europa non nasconde le proprie preoccupazioni per quello che sta accadendo. Per ora è impensabile stabilire con certezza fin dove potrebbe spingersi la ritirata
delle aziende americane; alcune statistiche dicono che una società su cinque sta pianificando di riallocare le proprie attività in aree meno costose e regolamentate di quanto possano esserlo le principali nazioni dell’UE.
Ma come e in che misura tutto ciò si svilupperà e potrà rivelarsi doloroso per l’Europa dell’ovest resta tuttora un’inquietante incognita.

a cura di Cornèr Banca


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