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17-08-2005

Pechino rivaluta, ma l’Occidente non esulta

Rispettando le aspettative dei mercati e, soprattutto, cedendo a anni di pressioni internazionali, lo scorso 21 luglio la Cina ha deciso di dare una svolta importantissima alla propria politica monetaria, rivalutando la moneta nazionale. Il renminbi (yuan), il cui corso di cambio era fissato a 8,28 Rmb per 1 dollaro, dopo ben undici anni è stato affrancato dalla divisa statunitense e d’ora in avanti il suo tasso di cambio verrà determinato da un sistema fondato sulla domanda e l’offerta
del mercato, con riferimento a un paniere di valute. La Banca popolare della Cina, nel dare tale annuncio, non ha specificato quali valute faranno parte
del paniere, ma ha confermato che le parità centrali saranno stabilite giornalmente.

Malgrado questa attestazione di “buona volontà” da parte di Pechino, i mercati non appaiono del tutto soddisfatti.
La ragione è semplice: di fatto la moneta cinese è stata rivalutata solo
del 2,1% e sebbene il cambio sarà tenuto a un livello “ragionevole e bilanciato” e si opererà in favore di una stabilità Finanziaria, la manovra non appare ancora sufficiente a ridefinire gli equilibri nei rapporti commerciali con l’estero. Infatti, le
pressioni provenienti da USA, Giappone ed Europa erano proprio indirizzate a ripristinare una certa equità per quanto attiene alle esportazioni cinesi; Pechino veniva sistematicamente accusata di mantenere un cambio inferiore al valore reale della moneta, così da rendere i propri prodotti e servizi più concorrenziali sui mercati. Da qui, la poderosa crescita economica cinese, ma anche il notevole ampliamento del surplus commerciale, che attualmente si avvicina ai 40 miliardi di dollari, praticamente il doppio rispetto a quello del 2004.
Da un punto di vista politico, i governi internazionali hanno commentato favorevolmente quello che, in ogni caso, appare come un gesto nella giusta direzione. Alan Greenspan, il governatore della Federal Reserve, non ha esitato a dire che si tratta di un primo buon passo che, però, dovrà essere seguito da altri interventi per poter adeguare la valuta cinese al valore di mercato, in modo tale da sanare i contrasti commerciali con l’estero.
Ovviamente, per il momento non si conoscono le intenzioni del governo cinese ed inoltre, secondo alcuni osservatori, non sembra nemmeno chiaro il funzionamento del nuovo sistema monetario. Pechino l’ha definito “un regime di cambio fluttuante e gestito”, ma i più critici temono che il termine “gestito” (managed) possa tradursi in un eccesso di controllo da parte dello Stato. Questo perché il governo non vuole comunque rischiare di compromettere il corso dell’economia interna e, quindi, potrebbe anche essere tentato di arginare rialzi dello yuan minacciosi per l’export.

Il giorno successivo all’annuncio della rivalutazione, sono state pubblicate le nuove statistiche congiunturali, che hanno mostrato come la crescita resti su livelli decisamente esuberanti rispetto al 2004: il Pil è balzato al 9,5%, nel secondo trimestre 2005, superando le più ottimistiche previsioni; la produzione industriale a giugno è aumentata del 16,8% e gli investimenti in attività fisse sono schizzati del 25,4%, da gennaio a giugno. Nel contempo, l’Inflazione resta ampiamente sotto controllo, con un tasso dell’1,6%.

Secondo uno studio dell’Economist, queste cifre potrebbero esser state gonfiate artificialmente, mentre, in realtà, l’economia cinese si troverebbe in una fase di rallentamento. Molti economisti sono in effetti convinti che Pechino abbia una tendenza “istituzionalizzata” a sovrastimare la crescita quando si trova al punto inferiore di un ciclo e a sottostimarla quando si trova all’apice. Inoltre, fanno notare
che la congiuntura cinese è alimentata principalmente dagli investimenti piuttosto
che dai consumi domestici, al contrario di quanto avviene in Occidente.
Per tale ragione, appare particolarmente vulnerabile a ogni rallentamento negli investimenti, sia aziendali che pubblici (impianti e infrastrutture).
Complessivamente, si ha tuttavia l’impressione che la Cina stia amministrando con maestria l’atterraggio morbido dell’economia verso il quale mirava; questa volta, infatti, le autorità di Pechino sono intervenute tagliando la crescita prima che la sua espansione divenisse incontrollabile, con largo anticipo e maggiore determinazione rispetto a quanto fecero a metà degli anni Novanta.
Nel lungo periodo, quindi, non si intravedono gravi rischi per la salute
dell’economia cinese. Nel breve, invece, la maggior preoccupazione è che
la Cina possa divenire vittima del proprio successo internazionale. Finora
il gigante giallo è stato un potente motore per l’intera economia mondiale; se dovesse rallentare, le tensioni politiche e commerciali potrebbero inasprirsi.

In conclusione, l’entità della rivalutazione dello yuan risulta ancora troppo
contenuta per poter consentire un riallineamento della moneta sul mercato
internazionale e un conseguente rincaro delle vendite cinesi all’estero.
Tale rivalutazione, però, appare come un gesto politico destinato a raffreddare
le pressioni finora esercitate su Pechino dai governi occidentali, specialmente
quello statunitense. Ma se l’economia cinese dovesse rallentare
bruscamente e quindi il governo decidesse di intervenire per proteggere
l’export, il livello delle tensioni ritornerebbe purtroppo a salire.
(a cura di Corner Bank)


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