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26-09-2005

Una nuova ondata di fusioni sta attraversando l'Europa

I dati relativi ai primi otto mesi dell’anno evidenziano una marcata ripresa in Europa delle operazioni di fusione e acquisizione aziendale. Secondo la maggioranza degli analisti, si tratterebbe dell’inizio di un nuovo ciclo di vita per questo genere di
transazioni che, dopo i tumulti finanziari di fine anni Novanta, sembra stiano vivendo una seconda giovinezza. Le cifre confermano tali affermazioni benché, va osservato, vi siano alcuni aspetti che invitano a riflettere.

Le statistiche finora rilevate anticipano che il 2005 potrebbe essere il miglior anno delle fusioni europee, dopo lo scoppio della bolla Finanziaria: da gennaio ad agosto il valore delle transazioni ha raggiunto un totale di ben 600 miliardi di dollari, corrispondente a un incremento del 40% rispetto allo stesso periodo del 2004.
Finora l’Europa non si è ancora avvicinata ai livelli degli Stati Uniti, che
detengono una quota del 50% del mercato mondiale delle fusioni, mentre quella europea arriva a circa un terzo del totale. Il cammino, però, è ben avviato e si attende un ulteriore ampliamento, visto che la tendenza mantiene il suo ritmo. L’annuncio importante più recente è di fine agosto, con la francese Saint-Gobain, il colosso dei materiali edili, che ha divulgato i dettagli della sua proposta ostile di
acquisto della rivale britannica BPB, per un ammontare di 6,5 miliardi di
dollari (successivamente respinta da quest’ultima).

Come detto si tratta dell’ultima notizia di un certo clamore, ma non certo dell’unica. L’intero anno è stato costellato di cosiddette “megafusioni”, con un primato per la Francia, che domina la classifica europea. In base a indicazioni raccolte dal settimanale britannico “Financial Times”, le cifre del 2005 assumono un aspetto impressionante se si pensa al trauma subito dal mercato delle fusioni
alla fine dello scorso decennio. Durante la seconda metà degli anni Novanta, la “mergemania” si tradusse in una catena di indebitamenti di smodate proporzioni che, a causa della pessima gestione con cui le operazioni di Consolidamento erano state realizzate, diedero luogo in breve a sconcertanti casi di Bancarotta, partendo dagli Stati Uniti e diffondendosi nel Vecchio continente. Basti ricordare, al proposito, la frenesia da acquisizione che aveva investito il mondo delle telecomunicazioni, di internet e dei media in generale; per non citare il folle entusiasmo che spinse la Daimler ad acquistare per ben 40 miliardi di dollari la Chrysler oppure, nel 2000, la grande operazione Time-Warner/AOL

In quel periodo, crebbe anche la convinzione che le fusioni aziendali erano
solo un pretesto e un’irrinunciabile opportunità per le banche di investimento per incassare commissioni. Nel frattempo la maggior parte di queste società cominciò a subire pesanti deprezzamenti sul mercato azionario, provocando i danni che hanno successivamente tenuto ingabbiati gli investitori per un lungo arco di tempo.

A questo punto viene da chiedersi per quale ragione le fusioni si siano ora rianimate in maniera così vistosa e, soprattutto, se vi sia o no da temere un tracollo finanziario come quello occorso alcuni anni fa. Le risposte potrebbero essere due: anzitutto, il precedente ciclo di fusioni sembra sia stato giudicato troppo severamente; in secondo luogo, l’attuale rinascita di queste operazioni apparirebbe alimentata da una componente di razionalità molto più elevata rispetto al passato.

Una conferma, in tal senso, viene da quell’elemento di riflessione di cui dicevamo all’inizio: nonostante la dinamicità del nuovo ciclo, gli europei mostrano una certa reticenza nei confronti delle fusioni transnazionali. I rigurgiti nazionalisti che, da un certo punto di osservazione si pongono come ostacolo ad un ulteriore allargamento delle fusioni, fungono contemporaneamente da calmiere, attenuando eccessi di entusiasmo e, quindi, di irrazionalità. Gli esempi non mancano. In Francia, non appena si sono sparse le voci di un probabile tentativo di takeover dell’americana
PepsiCo nei confronti del colosso alimentare Danone, il governo francese è immediatamente intervenuto con chiari atteggiamenti protezionistici.
Ha infatti dichiarato la propria intenzione di stilare una lista delle industrie
più strategiche per l’economia della nazione e, per tale ragione, da proteggere dai tentativi di acquisizione dall’estero. Il ministro dell’industria François Loos ha detto che, di principio, Parigi non si oppone a qualsiasi fusione con imprese straniere, ma vuole solo mettere in guardia gli investitori in odore di sferrare attacchi
ostili all’imprenditoria francese.
Nello stesso tempo, però, come detto è proprio la Francia a condurre le danze in Europa nel mercato delle fusioni. Si pensi che, nei primi sette mesi dell’anno, ha investito quasi 60 miliardi di dollari in operazioni di acquisizione aziendale in varie nazioni europee: Pernot Richard ha rilevato la rivale britannica Allied Domecq;
Suez ha acquistato la belga Electrabel; France Telecom la spagnola Amena e via dicendo.

Pur essendo attraversata da correnti di opposte direzioni, la poderosa spinta propulsiva che sta agitando il mondo delle fusioni resta non solo un fenomeno inconfutabile, ma anche continuamente alimentato da fattori trainanti, come la crescita degli utili aziendali e la ripresa congiunturale. Rispetto al precedente ciclo di “mergers & acquisitions”, i bilanci di molte grandi società risultano oggi
più sani e, inoltre, i finanziamenti sono meno costosi rispetto a dieci anni fa. I segnali di ripresa economica, per quanto modesti nel Vecchio continente, avrebbero altresì incentivato gli investitori ad uscire dall’impasse e riprendere l’attività delle fusioni, dopo un periodo di marcato rallentamento. Vi è infine un particolare non del tutto irrilevante: quasi un terzo delle operazioni europee sono attualmente generate da società a capitale privato, il che implica una piena assunzione dei rischi e la probabilità di azioni meno avventate.
A cura di Cornèr Banca SA


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